Nelle ultime settimane l’aggravarsi della situazione Greca, con il reiterato braccio di ferro tra il Governo del Premier Tsipras, l’Eurogruppo e la “Troika”, fino alla totale interruzione dei negoziati seguita alla convocazione del referendum popolare, ha riacceso un dibattito controverso che affonda le radici nel significato profondo e nel ruolo dell’Unione Europa.
Al di là della storia politica che ha portato la Grecia sull’orlo del default, è evidente che dal 2010 ad oggi, la gestione della crisi ellenica è stata una progressiva escalation verso il baratro, frutto di una scelta a monte profondamente miope, e di una cieca ostinazione nel perpetrare politiche di austerity depressive. Nel 2010, infatti, il debito greco era tutto sommato “contenuto” ma invece di assumersene il carico distribuendolo sulle economie dell’eurozona, si scelse di infilare la Grecia in una spirale di prestiti erogati dietro la condizione di pesanti riforme strutturali, per ridurre il deficit.
Riforme che la Grecia ha in buona parte realizzato, pagandone uno spaventoso prezzo sociale in termini di disoccupazione, aumento della povertà e della marginalità sociale, riduzione dei consumi e della produttività, perdita di capitale umano per la massiccia emigrazione.
La vicenda ellenica, soprattutto a partire dall’insediamento del Governo Tsipras, sta mostrando con disarmante chiarezza che la gestione di questa crisi perenne non interroga solo la politica economica dell’UE, ma pone una fortissima questione democratica, che scuote nel profondo le fondamenta del progetto europeo.
Il confronto tra i “creditori”, l’Eurogruppo e il Governo di Atene, è innanzitutto una battaglia di potere, una prova di forza tra visioni e culture politiche profondamente diverse nella quale la leva del debito e dei prestiti rappresenta un potente strumento di incertezza in mano a chi detiene la “maggioranza di fatto”, cioè a quella classe dirigente europea che rappresenta la visione attualmente maggioritaria. Una visione dell’Unione che, però, deriva tuttora dalla giustapposizione di interessi nazionali, e dalla sintesi imperfetta delle forze di Governo, cioè delle maggioranze politiche dei singoli Stati.
E’ indicativa, da questo punto di vista, la posizione assunta dal nostro Governo, il cui problema non è la “debolezza”, come pure si dice, ma l’essere in definitiva tattica più che strategica, una posizione che è determinata dalla maggiore utilità contingente, di breve periodo, per il nostro Paese, più che a una visione politica dell’Unione Europea.
Questo meccanismo di potere ha finito per mettere nell’angolo Tsipras, costretto a districarsi tra le pressioni internazionali, le possibili, drammatiche, conseguenze per il Paese, la propria maggioranza di Governo e la propria posizione minoritaria nel Consiglio Europeo. Lo stesso referendum, che ha rappresentato in questo senso un tentativo di divincolarsi dalla pressione incrociata, rischia di essere la pietra tombale del suo mandato. Ma se anche Tsipras dovesse perdere questa partita, ciò che davvero sta uscendo sconfitto è il metodo intergovernativo, la mancanza cioè di una governance europea unitaria, di un assetto realmente federale e democratico.
L’inefficacia, ed anzi la dannosità delle politiche europee di austerity, soprattutto in assenza di piani di investimento strutturali, è cosa ormai ampiamente condivisa a livello internazionale, anche da buona parte degli analisti economici. Politiche che hanno sortito gli effetti sperati, indebolendo chi già prima della crisi economica gravava in situazioni di difficoltà, scaricando il peso dei propri errori sulle spalle di studenti, pensionati e lavoratori, massacrando il sistema pubblico.
Risollevare l’Europa è necessario, intraprendendo politiche radicalmente diverse che consentano ai Paesi in difficoltà di investire, a partire da istruzione, conoscenza e innovazione.
Che Europa vogliamo? E’ questo il vero interrogativo che ci si pone di fronte.
Costruire un’Europa in cui tutti gli europei abbiano cittadinanza significa necessariamente partire dall’affermazione di un principio di solidarietà tra gli Stati che la compongono, e senza i quali non esisterebbe. Significa progettare politiche sociali ed economiche comuni, che diano equamente di più a chi ha meno, realizzando un welfare europeo, in grado di contrastare le diseguaglianze a livello continentale. Significa ripensare un modello di sviluppo che finora ha visto nel lavoro un’occasione di speculazione e non di crescita comunitaria, considerando tollerabile la disoccupazione strutturale di milioni di cittadini europei.
Come studentesse e studenti europei crediamo in un’Europa innovativa in cui la condizione economica e sociale di uno Stato membro, sia responsabilità politica di tutta l’eurozona e non, invece, motivo di punizioni, ipotesi di riscossioni coatte, e di minacce di espulsione. Credere di poter mantenere lo status quo, con lo strapotere degli Stati nazionali e la debolezza strutturale delle istituzioni europee, è una prospettiva medievale: significa rinunciare alla politica come strumento per dirimere le controversie, abbandonandosi semplicemente alla legge del più forte. Sosteniamo l’idea e il sogno originario di un’Europa federale, forte nella sua coesione, solidale nelle sue politiche, inclusiva per il suo futuro.
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