Il 18 febbraio 2016, il MIUR ha pubblicato il Decreto Ministeriale n.78 del 2016, che ripartisce gli 861 posti di Ricercatore a tempo determinato di tipo B (contratti triennali non rinnovabili, con la possibilità di conseguire l’abilitazione scientifica nazionale e – in caso di valutazione positiva – di essere inquadrati come professori associati). Già a un primo sguardo si può vedere come un finanziamento di entità così ridotta, senza una programmazione di reclutamento con cadenza annuale, non possa risolvere sicuramente la carenza di personale docente all’interno dell’Università, né tanto meno fermare l’emorragia progressiva di docenti dagli organici universitari: l’impatto medio di questo “Piano Straordinario Ricercatori 2016” a livello italiano sarà solamente dell’1,80% rispetto all’attuale organico di Ordinari, Associati e Ricercatori. Il modello di riparto di queste poche risorse è basato su una serie di indicatori della VQR, che stanno suscitando un dibattito intenso all’interno delle Università in questi giorni.
Il Governo vanta questo provvedimento in ottica esclusivamente propagandistica, visto anche lo scontro di questi giorni tra il Ministro Giannini e la Ricercatrice Roberta D’Alessandro, e con l’utilizzo di questo modello di riparto fornisce agli atenei infime possibilità di reclutamento e prosegue una serie di politiche universitarie fortemente penalizzanti il Sud. Dal 2010 ad oggi sono stati persi nelle Università italiane ben 7503 Ricercatori, Professori Associati e Ordinari, che non sono stati sostituiti a causa dei tagli, della critica ripartizione dei punti organico, e del blocco del turnover. Prendendo in mano gli attuali numeri di Ricercatori, Associati e Ordinari, si può vedere come questo “Piano Ricercatori” impatterà mediamente solamente per l’1,8% in più sugli organici delle università, con percentuali che variano dal 1,18% dell’Università di Messina al 3,14% dell’Orientale di Napoli (equivalente in realtà a 5 RTD-B), e mostrano percentuali più alte nelle università con un organico sotto le 100 unità, anche a fronte di minuscole assegnazioni (tra 3 e 5 RTD-B). Gli 861 ricercatori sono ripartiti seguendo le stesse logiche e con gli stessi effetti:, 409 RTD-B andranno alle università del Nord, 206 alle università del Centro, mentre solo 245 verranno assunti nelle università del Sud. Se si guarda poi all’impatto che questa “manovrina” avrà sul numero di docenti persi dagli atenei per i fattori indicati sopra, si nota come al Nord si “ammortizzerà” il calo dei docenti degli ultimi 5 anni per il 14,76%. Questo rapporto è del 9,62% nelle università del Centro e del 9,49% nelle università del Sud. Questa percentuale arriva addirittura a percentuali drammatiche nelle Isole: 7,6% a Cagliari, 6,35% a Palermo, 5,4% a Catania, 4,98% a Messina.
Un così scarso ricambio significa costringere gli Atenei a due scelte: alzare le tasse universitarie e chiudere i corsi di laurea. Una manovra di questa entità, messa in pratica con dei criteri che mirano semplicemente a creare un’ulteriore disuguaglianza all’interno del Paese non faranno altro che accentuare il già disastroso scenario di sottofinanziamento. L’assenza di logiche strategiche e di fabbisogno, miste al sistema di valutazione della VQR, che mira esclusivamente a punire e allocare, secondo un presunto “merito”, delle risorse, che in realtà sono quote inferiori di tagli, mostrano, dietro agli artifici retorici, quale sia il reale obiettivo del Governo: ridurre il numero di università in giro per il Paese, senza concedere risorse reali e abbattendo il sistema universitario nel Mezzogiorno, desertificandolo dal punto di vista culturale ed economico e passando attraverso la negazione stessa dell’accesso innalzando barriere economiche, sociali o introducendo direttamente una programmazione degli accessi.
La conferma di questo è la situazione disastrosa del diritto allo studio, in cui il nuovo ISEE ha tolto a 25293 studenti (il 20,89% degli idonei a livello nazionale) la possibilità di accedere ad una borsa di studio. Come sempre siamo abituati a notare che la percentuale di esodati a causa del nuovo ISEE rispetto all’anno precedente aumenta vertiginosamente a Cagliari (-21,75%), Palermo (-33,83%), Messina (-52,67%) Urbino (-35,66%). L’Italia ha perso 25500 immatricolati e di questi il 52% sono immatricolati nelle Università del Sud. E se la percentuale di perdita degli immatricolati dal 2010 ad oggi è poco meno dell’1% al Nord, questa percentuale arriva al 14,38% al Sud.
La combinazione del calo di oltre 7500 tra Ordinari, Associati e Ricercatori tra 2010 e 2015, e di più di 25.500 studenti immatricolati in meno tra 2010/2011 e 2014/2015 dovrebbe far capire quanta e quale sia la necessità di investire in Università al Governo. Di fronte a un diritto allo studio mutilato, una precarirtà della ricerca soffocante, una classe accademica sempre più vecchia e sempre meno rinnovata, il Ministero sistema delle briciole sostenendo che siano il migliore dei banchetti. Senza interventi immediati, l’Università è destinata a collassare, a partire dai martoriati atenei del Sud. È ora di smetterla con gli slogan e iniziare a discutere seriamente di investimenti sostanziali in Università.
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