Ieri al referendum consultivo, in cui i cittadini del Regno Unito erano chiamati a pronunciarsi sulla Brexit, ha vinto il “Leave”, aprendo a scenari preoccupanti per il futuro stesso del Paese e dell’Europa tutta.
I dati diffusi dai quotidiani nazionali britannici, in particolare dal Telegraph, mostrano l’evidenza di una distinzione generazionale del voto: la maggior parte delle circoscrizioni in cui il voto si è indirizzato con percentuali superiori al 50% per il “Leave” ha una popolazione costituita per più del 15% da over 65. Allo stesso modo incide il livello dell’educazione: dove la popolazione tra i 16 e i 64 anni ha una percentuale di scolarizzazione più bassa il voto è stato maggiormente indirizzato verso l’opzione del “Leave”. D’altra parte sembrano confermati gli ultimi opinion polls, secondo cui i giovani tra i 18 e 24 anni hanno votato in massa per il Remain: oltre il 72%. I britannici figli dell’Europa unita sono la vittima peggiore delle scelte politiche scellerate che da tempo ingabbiano l’UE e che la stanno portando alla disgregazione.
Parallelamente, la quasi totale corrispondenza tra le aree con il maggiore livello di istruzione universitaria e quelle in cui ha vinto l’opzione “Remain” è indicativa di quanto avevano già sottolineato gli opinion polls: il supporto alla permanenza nell’Unione Europea è stato maggiore laddove il livello di istruzione è più alto.
L’analisi del voto della “working class” è quella che evidenzia la maggiore responsabilità delle formazioni politiche di sinistra, che, teoricamente, dovrebbero qui vedere la propria popolazione di riferimento: la manodopera semi-qualificata, non qualificata, i lavoratori informali e i pensionati hanno votato “Leave”. Nelle circoscrizioni in cui la popolazione è maggiormente costituita da questi segmenti sociali, il sostegno al “Brexit” ha visto percentuali più elevate.
Questi dati vanno di pari passo con il confronto tra l’esito del referendum e i consensi ottenuti dall’UKIP nelle ultime elezioni britanniche: il “Leave” ha ottenuto risultati migliori proprio laddove il partito di Nigel Farage aveva registrato un maggior consenso.
Ieri nel Regno Unito hanno vinto la rabbia e la paura verso quest’Europa. Ha vinto Nigel Farage con la sua narrazione xenofoba e nazionalista, che negli anni ha interpretato la distanza di larga parte del popolo del Regno Unito dal resto dell’Unione Europea. Ha perso il Partito Laburista, incapace di far emergere una linea di piena integrazione nei processi dell’Unione e l’intento di cambiarla, facendo tornare al centro la politica e non la finanza. La vittoria del “Leave” è anche responsabilità delle politiche messe in campo dai governi nazionali, più concentrati alla tutela e costruzione di un consenso interno, piuttosto che di una reale integrazione europea. Ieri con il Regno Unito, infatti, ha perso tutta l’Unione Europea, che ha ricevuto un segnale molto forte: o sarà in grado di avviare un reale processo di costruzione dell’unione dei popoli europei o sarà travolta da un effetto domino di cui il voto di ieri rappresenta solo il primo tassello.
Inoltre, i dati di ieri ci confermano come l’istruzione giochi un ruolo fondamentale nella consapevolezza dello scenario politico e quindi debba essere tra le priorità di investimento: la narrazione nazionalista, xenofoba e razzista attecchisce più facilmente nella fasce con livelli di istruzione minori, impaurite da fenomeni come l’aumento della disoccupazione e l’aumento del tasso di immigrazione. È tra la popolazione che ha ricevuto un più alta educazione che, invece, vince un’idea di lungo periodo, capace di una critica costruttiva.
La vittoria del “Leave” sottolinea la distanza tra popoli europei e Unione Europea, o meglio del relativo establishment: un’integrazione basata principalmente su meccanismi finanziari e lontana dalle necessità dei cittadini non poteva che risultare fallimentare. La legittimazione popolare dell’Unione Europea è in pericolo nel momento in cui nella discussione politica non risultano priorità tangibili nella vita delle persone: occupazione, accesso all’istruzione, welfare e lotta alle diseguaglianze.
Su questo dovranno interrogarsi tutti i partiti della socialdemocrazia e della sinistra radicale europea, perché il caso inglese purtroppo non è un’anomalia isolata. È necessario sostituire i tagli, frutto delle politiche di austerità, messi in campo dai falchi europei in questi anni con dei reali investimenti che permettano la crescita economica, culturale e sociale, altrimenti il rischio è il ritorno agli Stati nazionali del ‘900 con le conseguenze che tutti noi dovremmo sapere. È necessario rifondare l’UE, partendo da principi come democrazia, solidarietà e partecipazione, per far si che si costruisca una idea collettiva di Europa, che sappia mettere al centro del proprio agire politiche di integrazione e di crescita, e che non sia schiava di vincoli monetari e finanziari, i quali, oltre ad aver fallito nel tentativo di rilanciare l’economia partendo dal rigore, sono tra le principali cause del ritorno di venti nazionalisti. O saremo in grado di interpretare questa esigenza di cambiamento e invertire subito la rotta, o l’UE perde il suo ruolo e quindi motivo di esistere, lasciando il campo ad un tragico ritorno al passato.
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