Il referendum confermativo sulla riforma costituzionale del 4 dicembre ha restituito il verdetto: il 41% degli italiani ha votato “sì” e il 59% ha votato “no”, con un’affluenza superiore al 65%.
In attesa di avere dati statistici più affidabili, che permetteranno di compiere un’analisi dettagliata del voto, si possono comunque già prendere in considerazione i dati degli exit poll secondo cui le fasce di popolazione che più hanno votato “no” sono i giovani e i disoccupati. Lo slogan del cambiamento, il governo più giovane della storia repubblicana, la riforma costituzionale presentata come panacea dei mali del Paese si sono scontrati con il no della generazione che, nella retorica governativa, più avrebbe dovuto beneficiare della rottamazione renziana. Questo dato, assieme a quello dell’alta affluenza, sono segnali rilevanti per il Paese e per la politica: questa riforma costituzionale non è piaciuta agli italiani, che hanno capito che non “basta un sì” per far fronte ai problemi del nostro Paese, aspetto su cui Governo e fronte a sostegno della riforma hanno incentrato la campagna referendaria. C’è una volontà di partecipazione che troppe volte non trova una vera rappresentanza o viene incanalata in contenitori politici che preferiscono dividere e cavalcare le pulsioni peggiori della società.
Da questo risultato, però, deve uscire una risposta diversa.
Deve essere la vittoria di chi chiede di ricucire gli strappi della società, di chi crede ostinatamente nella necessità di confrontarsi con le parti sociali, con chi rappresenta il Paese, per poter governare in una direzione corretta e condivisa.
Deve essere la sconfitta del leaderismo sfrenato, dell’avversità verso il sano pluralismo e, contemporaneamente, deve essere la vittoria della richiesta di una vera dialettica in politica, principalmente sulle regole del gioco: è stata bocciata una riforma che voleva modificare 47 articoli della Costituzione in un colpo solo, approvata dalla sola maggioranza di Governo in Parlamento.
La fortissima personalizzazione del quesito nella figura del Presidente del Consiglio ha avuto un ruolo decisivo nel ridurre il dibattito ad uno scontro tra “tifoserie”, in cui al quesito referendario reale si è sovrapposto un plebiscito su Renzi. Nello stesso discorso di dimissioni, Renzi ha continuato ad incentrare la discussione su sé stesso e sul governo, riconducendosi il merito di aver voluto affrontare un giudizio referendario (quando invece questo si è reso necessario dalla mancanza di una maggioranza parlamentare qualificata a sostegno della riforma), seguitando a sostenere le proprie ragioni, riducendo la sconfitta all’incapacità di convincere gli elettori, senza riconoscere che la volontà del Paese è risultata essere nettamente contraria a quella del governo.
Le nostre organizzazioni non hanno mai voluto centrare il dibattito referendario sulla figura del Presidente del Consiglio, ma sui contenuti, a nostro avviso sbagliati, di questa riforma. Il dibattito, ora, deve restare acceso, riuscendo a sanare una divisione che rischia di fossilizzare il Paese in una demonizzazione degli avversari, deve saper ascoltare chi e perché ha votato no.
Il contributo dell’Unione degli Universitari e della Rete degli Studenti Medi per un voto consapevole contro questa riforma ha dato i suoi frutti e dovrà averne ancor più ora: purtroppo non possiamo pensare che la battaglia su una certa concezione della Costituzione, e quindi del nostro sistema politico, si consideri conclusa con un successo elettorale. In un momento di caos istituzionale, in cui i partiti, soprattutto della sinistra, non riescono a garantire una reale rappresentatività, le organizzazioni come le nostre hanno il dovere di essere in prima linea per riaffermare una certa idea di politica, contro il leaderismo, l’assenza di confronto e il rischio di derive populiste.
Il nostro voto nel merito del contenuto della riforma, a differenza di chi ha sostenuto il NO per una mera logica anti-renziana e anti-governativa, ora ha una sola prospettiva: quella di spingere affinché venga portata avanti l’idea di dare piena attuazione ai principi costituzionali e, conseguentemente, difendere i principi democratici che dovrebbero essere alla base del sistema politico italiano. Lo abbiamo detto fin dall’inizio di questa campagna referendaria: il Paese ha bisogno di democrazia, partecipazione e rappresentatività.
Sarà fondamentale in questo momento non bloccare l’attività politica in corso, a partire dalla discussione sulla Legge di Bilancio e sulle deleghe della Buona Scuola. Noi, come organizzazioni, ci batteremo in ogni sede, come abbiamo sempre fatto, soprattutto ora che la difficile fase politica rischia di sfociare nell’immobilismo o nelle risposte semplici.
Il Paese necessita di parlare di scuola, di università, di riscatto sociale e di lavoro. Per questo, sarà fondamentale che, con il cambio di scenario politico, si riapra un confronto ampio, a partire da quello con i corpi intermedi, al fine di ricucire gli strappi che purtroppo si sono generati durante questa campagna referendaria e per trovare risposte collettive alla crisi della politica e della rappresentanza in Italia.
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