Nell’ultimo periodo, in Italia e a livello internazionale, la condizione dei diritti delle donne è un tema di forte attualità: dalle dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ai numeri allarmanti riguardanti le mutilazioni genitali femminili nel mondo e in Europa, fino alle discussioni di estrema attualità nel nostro Paese riguardanti l’applicazione della Legge 194, le condizioni dei centri antiviolenza, il tema della precarietà lavorativa e dell’assenza di tutele.
La discussione intorno all’applicazione della legge 194, è purtroppo ancora un tema estremamente attuale: la percentuale di medici obiettori raggiunge picchi elevatissimi, in Molise è uno solo, tra i ginecologi, a praticare l’interruzione volontaria di gravidanza. Mentre si discute intorno ad una delle poche iniziative positive che sono state messe in campo su questo tema, ovvero l’indizione da parte della Regione Lazio di un bando per medici non obiettori, c’è chi accusa la Regione di mettere in mettere in pratica azioni discriminatorie, intanto, a Padova, una donna di 41 anni che voleva interrompere la propria gravidanza, è stata respinta da 23 ospedali. Non è certamente un bando per medici non obiettori a risolvere questo tipo di problematiche, ma è certamente un primo passo per arginare un problema che lede la libertà e l’autodeterminazione delle donne, e, in alcuni casi, ne lede la salute. Bisogna allora agire sulla coscienza e sulla cultura di chi sceglie di intraprendere questa professione: è necessario che si comprenda che la tutela dei diritti e delle libertà personali, la salvaguardia della salute e la garanzia dell’autodeterminazione sono fattori imprescindibili.
Le diseguaglianze dovute all’impossibilità di una completa autodeterminazione vedono concretezza in altri elementi sociali: dalla maggior difficoltà delle donne ad accedere al mondo del lavoro e, ancor più, agli incarichi dirigenziali, all’assenza di diritti e di un sistema di welfare che garantisca libertà, stabilità e autodeterminazione. Non è sostenibile uno scenario lavorativo in cui una neo-madre su 4 perde il proprio posto di lavoro e in cui lo stipendio medio lordo di una donna è del 20% inferiore a quello di un uomo.
Per scardinare questi squilibri e superare gli stereotipi di genere scuola e università devono svolgere un ruolo di sensibilizzazione, partendo dall’educazione sessuale nelle scuole. È necessario porre lo sguardo oltre il risultato immediato (in questo caso la riduzione delle malattie sessualmente trasmissibili) per puntare alla costruzione di una cultura in cui vi sia consapevolezza riguardo i diritti di genere e rispetto dell’identità di genere, in cui si sappia affrontare i temi della sessualità, dell’affettività, dell’identità di genere oltre l’attuale struttura binaria. Contemporaneamente è necessario costruire un sistema di welfare che finalmente permetta ad una donna di far convivere vita familiare con vita lavorativa, senza dimenticare la necessità di rafforzare il funzionamento dei centri anti-violenza e delle strutture di ascolto.
Il mondo dell’istruzione e la cultura dei diritti
La scuola, nel nostro Paese, rappresenta il luogo in cui le differenze di genere andrebbero abbattute culturalmente, ma per costruire un’uguaglianza sostanziale a tutti i livelli, serve abbattere gli stereotipi di genere alimentando la cultura dei diritti. Per costruire questo, è necessario ripensare modelli e percorsi: l’inserimento di progetti completi di educazione sessuale nelle scuole, la diffusione di seminari di studi di genere, sono solo piccoli ma fondamentali passi in questa direzione. Ad oggi infatti, il problema è concreto: l’Italia è uno dei pochi Paesi europei a non aver compreso la necessità di investire su questi temi, poiché si evidenzia come sia un intero ambiente – politico, sociale, culturale e religioso – a rallentare questo processo necessario per inserire percorsi seri di educazione sessuale nelle scuole, che ad oggi, eccetto pochissimi progetti estemporanei, non sono in campo. Oltre a questo, grande mancanza nella scuola, è l’approfondimento dei diritti relativi all’accesso nel mondo del lavoro, discussione che, con l’attivazione dei percorsi di alternanza scuola – lavoro, sarebbe ancora più fondamentale, soprattutto per la condizione lavorativa femminile.
Ripartire dalla scuola diventa prioritario per ricostruire una coscienza collettiva, per abbattere le barriere costruite dagli stereotipi di genere, che vanno ad evidenziarsi, anche a fronte dei dati sull’ingresso alle università, soprattutto quando si parla di accesso al mondo del lavoro e di stabilità lavorativa.
Il mondo universitario, nella sua componente studentesca, sembra rappresentare un elemento positivo nel cammino verso l’uguaglianza: le studentesse iscritte all’università dal 2003/2004 a oggi sono aumentate e sono passate da 613.822 a 923.004 nel 2015/2016: costituivano il 55,1% della popolazione studentesca italiana e oggi costituiscono il 55,9%. I dati sulle immatricolazioni seguono il medesimo trend. Non è però, purtroppo, oro tutto quel che luccica: l’accesso ai consultori risulta complesso, per via dell’assenza di sportelli all’interno delle università e diritti quali la possibilità di sospendere gli studi per maternità risultano ancora un’utopia (a meno di non chiedere sospensioni per “malattia”).
Questo scenario all’interno della componente accademica della comunità studentesca non è omogeneo e ha, oltre a differenze territoriali, anche differenze per quanto riguarda i corsi di laurea a cui le studentesse sono iscritte perché, pur in aumento nel trend storico anche in quei corsi con sbocchi a professioni in cui l’assunzione di uomini è ben maggiore, le percentuali risultano ancora molto basse. Il mondo lavorativo accademico risulta in trasformazione anche in questo caso, proprio per via del progressivo aumento di donne laureate. Il mondo lavorativo per chi esce dall’università, invece, continua a mantenere delle grosse differenze e la sua influenza anche sulla scelta stessa del percorso di studi è ben tangibile.
L’accesso al mondo del lavoro: precarietà e disuguaglianze
Tra i diplomati, in termini assoluti, è maggiore la presenza femminile: le ragazze sono più numerose nei percorsi liceali, dove rappresentano complessivamente il 60%, intorno al 50% negli istituti professionali e minoritarie nei percorsi tecnici. Nei percorsi di formazione post diploma, sono ad oggi le donne a registrare il maggior tasso di partecipazione: a fronte però di una percentuale più alta di coloro che studiano, c’è un dato allarmante riferito alla condizione occupazionale. Se si vuole considerare occupati anche quanti risultano impegnati in formazione retribuita, il tasso di occupazione femminile, ad un anno dal titolo, è leggermente più basso di quello dei colleghi (lavorano 35 femmine e 37 maschi su cento); ulteriori elementi utili al completamento del quadro di analisi derivano dalla valutazione del tasso di disoccupazione, che risulta lievemente più elevato tra le femmine ad un anno dal titolo (+3 punti percentuali). Tuttavia, in termini di stabilità lavorativa si rilevano differenze di genere significative, infatti, ad un anno dal diploma risultano stabili 22 maschi e 11 femmine su cento: ciò è dovuto in particolar modo alla maggiore presenza tra la componente maschile dei contratti a tempo indeterminato (18% rispetto al 9% delle donne). Anche le assunzioni con contratti di inserimento o apprendistato sono più diffuse tra i maschi (19% contro 12% delle femmine), mentre i contratti non standard, in particolare quelli a tempo determinato, sono lievemente più frequenti fra le diplomate (23% contro 22%). Le donne superano (di ben 12 punti) i compagni solo nel lavoro senza contratto, dove la quota è pari al 32%.
A tre anni dal titolo, le differenze di genere invece che ridursi si amplificano: in termini di stabilità lavorativa il margine di differenza raggiunge i 13 punti percentuali (30% a favore dei maschi rispetto al 17% rilevato tra le donne). Il contratto non standard e il lavoro non regolamentato sono invece più frequentemente presenti tra le femmine (rispettivamente 22% e 28% contro 20% e 17 dei maschi).
Per quanto riguarda i laureati, nel 2004/2005 le studentesse laureate erano 97.178 (il 56,9% del totale) e nel 2015/2016 sono 173.759 (il 58,2%).
Nel rapporto AlmaLaurea 2016 sono presenti alcuni dati molto rilevanti per quanto riguarda la condizione occupazionale e formativa per genere, con laureati intervistati a un anno dalla laurea. Oltre a un calo generale dell’occupazione e aumento delle percentuali di inattività e disoccupazione, si è allargata, negli ultimi anni, anche la forbice di genere: il 27,5% delle studentesse laureate nel 2014 risulta avere un’occupazione, l’11,7% lavora mentre prosegue gli studi, il 39,9% studia all’interno di una laurea magistrale e il 20,7% è disoccupato o inattivo. Per gli studenti i numeri sono diversi: a un anno dalla laurea il 25,8% lavora, il 12% prosegue gli studi e lavora, il 46,9% studia in un corso di laurea magistrale e il 15,3% è disoccupato o inattivo. Questa distinzione risulta essere ancor più pesante tenuto conto dello scenario di precarietà lavorativa maggiormente diffuso nella componente femminile: nel 2014 solamente il 32% delle donne aveva un contratto stabile, a fronte del 42% della componente maschile.
Un ulteriore elemento di precarietà è dato da quelli che l’indagine definisce “lavori non standard”, svolti dal 33% delle donne e dal 26% degli uomini, dati influenzati principalmente dalla variabile del contratto a tempo determinato, che riguarda il 26% delle donne e il 20% degli uomini. Il lavoro nero costituisce un altro elemento negativo: il 12% delle donne occupate a un anno dalla laurea lavora in nero, a fronte del 9% della componente maschile.
I dati che emergono rispetto alla stabilità lavorativa, oltre tutto fortemente sbilanciata tra i lavoratori e le lavoratrici nel nostro Paese, ci impongono una riflessione di forte attualità: con un modello economico che privilegia il lavoro non tutelato, che semplifica le procedure di licenziamento e amplia l’utilizzo dei voucher, in un Paese in cui è ancora estremamente diffusa la pratica delle dimissioni in bianco, è necessario aprire una riflessione seria su come questo modello possa essere superato, su come sia possibile creare uguaglianza sostanziale e maggiori tutele e diritti per tutte e per tutti. In questo senso i referendum promossi dalla Cgil – Confederazione Generale Italiana del Lavoro, rappresentano un primo passo a cui dare pieno e completo sostegno, guardando ad un ripensamento complessivo dei diritti e delle tutele: la Carta dei Diritti Universali del Lavoro promossa dalla Cgil è la proposta a cui guardare.
Gli stereotipi di genere nell’epoca dei “nativi digitali”
Gli stereotipi di genere condizionano fortemente scelte e comportamenti, agendo in maniera sottile, molto spesso senza che chi ne subisce l’influenza ne sia consapevole. Questi agiscono su vari fronti, troppo spesso indirizzano le aspirazioni di carriera, o fanno credere alle donne di essere inadatte a svolgere determinati ruoli, o a tenere determinati comportamenti. L’identità di genere si compone nella prima età, ma gli influssi esterni concorrono a determinarla. Considerato l’attuale modello, da ciò ne deriva una conseguente polarizzazione e tipizzazione, del maschile e del femminile, non nella direzione di valorizzare le differenze, ma troppo spesso nell’ottica discriminatoria. Per queste ragioni è fondamentale agire sul sostrato sociale e culturale per riuscire a raggiungere un’uguaglianza sostanziale, in termini di accesso, di diritti e di opportunità.
Rispetto a questo molti sono i temi su cui agire: ripartendo dal ruolo sociale dei servizi ai cittadini, valorizzando progetti come centri antiviolenza e consultori, incentivando percorsi di educazione sessuale e di prevenzione, di informazione rispetto alle tematiche dell’identità digitale e i relativi diritti.
La nascita di servizi quali Consultori al 1975 in risposta ad un tessuto sociale che stava mutando complessivamente, caratterizzato da un nuovo concetto di sessualità, alla diffusa problematica degli aborti clandestini che nel 1978 portò alla prima legge sull’interruzione volontaria di gravidanza. Il boom dei servizi di “strada” e la loro diffusione negli anni ha avuto un ruolo fondamentale nella gestione di problematiche sociali complesse che difficilmente troveranno mai soluzioni definitive.
Nonostante il ruolo fondamentale di tali servizi negli anni più recenti si è visto un loro progressivo indebolimento e sottofinanziamento.
In una società caratterizzata, però, dall’assenza di una vera educazione all’affettività e alla sessualità, servizi quali centri anti-violenza e Consultori dovrebbero rappresentare luoghi di tutela e informazioni tra i più diffusi e attivi.
L’educazione sessuale infatti ad oggi, anziché essere una pratica estremamente ridimensionata, dovrebbe svolgere un ruolo centrale all’interno dei percorsi di formazione. Infatti sono pochissimi i giovani nel mondo a ricevere una preparazione adeguata su questi temi, nonostante nella maggior parte degli Stati dell’UE questa materia sia obbligatoria (Germania dal 1968, Danimarca, Finlandia e Austria dal 1970, Francia dal 1998). Per questo motivo, recentemente l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato un resoconto sugli impatti dell’educazione sessuale: diminuzione di gravidanze indesiderate, di malattie trasmesse sessualmente, di episodi di abusi sessuali e di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale. Percorsi di educazione sessuale improntati sulle esigenze di oggi, devono riguardare necessariamente la persona nella sua totalità, tenendo insieme aspetti fisici, cognitivi, sociali e interattivi della sessualità. Più nel dettaglio, i percorsi di educazione sessuale devono avere obiettivi specifici, di breve e di lungo periodo: nel breve tempo puntano a ridurre la frequenza di attività non protette, incrementare l’uso di precauzioni per evitare gravidanze indesiderate e malattie sessualmente trasmesse. Nel lungo periodo invece l’obiettivo diventa quello di riconoscere e smontare gli stereotipi di genere agendo sul sostrato culturale in modo capillare: smontare gli stereotipi alla base delle discriminazioni di genere e quelli legati all’orientamento sessuale, conducendo ad acquisire una maggiore consapevolezza dei diritti umani e dell’uguaglianza di genere, sensibilizzare intorno al tema dell’identità di genere e dei diritti digitali. Quest’ultimo tema merita una riflessione a sé, visto che oggi entra nei luoghi d’istruzione la generazione dei cosiddetti “nativi digitali”, per cui l’identità digitale risulta essere concretamente parte dell’identità personale. La leggerezza con cui gli stereotipi di genere vengono espressi nelle piattaforme digitali, sfociando oltre le frontiere del cyberbullismo, la distanza costituita dalle piattaforme virtuali come elemento scatenare discriminazioni e odio sono elementi che vanno via via sviluppandosi. È necessario affrontare il tema della sessualità nell’epoca digitale fornendo gli strumenti per formare una cultura dai luoghi del sapere, per poter affrontare nel più breve tempo possibile le frontiere del mondo digitale entro cui possa svilupparsi una salda cultura dei diritti.
L’introduzione di diritti all’interno della legislazione non può che passare attraverso una cultura che ritenga questi diritti essenziali per la libertà di autodeterminazione individuale.
La costruzione di un’uguaglianza sostanziale non può che partire dai luoghi dell’istruzione e da quei luoghi che viviamo ogni giorno espandersi nella società.
È inutile focalizzare l’attenzione sull’8 marzo. È inutile porsi il problema del femminicidio nelle ricorrenze a calendario, così come è inutile porre il tema del superamento degli stereotipi di genere solamente di fronte a tragedie sociali. È inutile che siano solamente alcuni corpi sociali a interrogarsi sulla tutela dei diritti di genere.
La condizione essenziale per un vero progresso sociale non può che essere l’uguaglianza sostanziale. Noi ci battiamo e ci batteremo affinché la cultura dei diritti non sia un banale slogan, ma sia un obiettivo diffuso delle battaglie quotidiane, dalla tutela del diritto allo studio alla necessità di superare la precarietà nel mondo del lavoro.
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