Negli ultimi giorni siamo venuti a conoscenza dello sciopero proclamato dal “Movimento per la dignità della docenza universitaria”, che come modalità vede l’astensione dallo svolgimento degli esami di profitto nelle Università italiane. Nel dettaglio, si prevede l’astensione dallo svolgimento di un appello per i docenti che dovessero avere fissato due appelli nella sessione di settembre-ottobre, mentre i docenti che dovessero avere fissato un solo appello dovrebbero astenersi dal suo svolgimento, salvo poi richiedere un appello straordinario nei 14 giorni successivi.
Le rivendicazioni dello sciopero riguardano gli scatti stipendiali dei professori e dei ricercatori universitari e dei ricercatori degli Enti di Ricerca italiani: in sintesi viene chiesto il sostanziale sblocco di classi e scatti stipendiali e il riconoscimento dei mancati scatti (dal 2011 al 2015).
Riteniamo le rivendicazioni di questo sciopero più che legittime, considerata l’inconsistenza degli interventi statali, sollecitati da vari incontri e missive inviate al Ministero come sottolineato dalla piattaforma dei docenti. Tuttavia, crediamo che l’astensione dagli esami di profitto sia uno strumento di protesta estremamente sbagliato: è inutile produrre un danno diretto agli studenti, che non sono utenti di un servizio, ma parte integrante della comunità accademica e principale componente, non solamente da un punto di vista prettamente numerico. Questa modalità di protesta rischia di produrre una spaccatura nell’università, invece di creare la coesione necessaria a rilanciare le rivendicazioni contro i principi delle riforme che hanno ridotto l’università allo stato disastroso di oggi.
Noi studenti siamo stati i primi, in un primo momento isolati rispetto al resto della comunità accademica, dai tempi delle proteste contro la Legge 133/2008 (cosiddetta “Legge Tremonti”), a sottolineare come vi fosse uno scientifico disegno di distruzione dell’università pubblica.
Dicevamo che il taglio ai finanziamenti avrebbe portato all’abbattimento dei diritti di tutta la comunità accademica: il diritto allo studio degli studenti, i diritti dei lavoratori per tecnici amministrativi, ricercatori e professori, con il dilagare di precarietà e sfruttamento. Dicevamo che quei provvedimenti avrebbero comportato un duro attacco anche a chi già era incardinato nel sistema della docenza.
La Legge 240/2010 (cosiddetta “Legge Gelmini”) ha semplicemente scoperchiato tutte le criticità già contenute nei tagli di Tremonti, provocando tagli al personale amministrativo e introducendo parallelamente una iper-burocratizzazione di tutti i processi. Sono stati imposti procedimenti di accreditamento e reclutamento stringenti che, in un sistema definanziato, hanno limitato il potenziale delle comunità accademiche e spinto a introdurre un sempre maggior numero di numeri chiusi. Ed è stato dato un colpo alla base del sistema, tagliando sul diritto allo studio e portando le università a dover basare una fetta essenziale del proprio bilancio sulle tasse degli studenti, che hanno progressivamente perso la propria natura di semplice “contribuzione”. Invece di puntare a “essere competitivi” da un punto di vista di sistema con gli altri sistemi europei, si è puntato a distruggere ogni possibile cooperazione all’interno del sistema universitario italiano, sollecitando una competizione inutile e folle tra atenei e, all’interno di essi, tra dipartimenti e tra settori.
Il tema degli scatti stipendiali era tra i punti critici che avevamo sottolineato già nel 2008 e abbiamo continuato a sottolinearlo anche quando la “Buona Università” è stata inserita dal Governo Renzi all’interno della Legge di stabilità del 2016, senza rinnovare il blocco degli scatti, ma affidando ai bilanci degli atenei, negli anni martoriati dai tagli, a provvedere al risanamento di questa situazione.
In uno scenario di questo tipo crediamo che solamente l’unità della comunità accademica, che ha sempre avversato i principi di quei provvedimenti, possa ottenere risultati utili all’università pubblica in Italia. Perché porre in essere una lotta in cui vi è una rivendicazione giusta, da parte dei docenti, con una modalità sbagliata, che rischierebbe di danneggiare gli studenti, che in Europa pagano le terze tasse più alte e sono gli unici a rischiare di essere idonei non beneficiari? Siamo ben consapevoli che il pieno rispetto dei diritti dei docenti sia elemento necessario anche per la qualità della didattica, ancor prima che della ricerca. Per questo riteniamo un errore frammentare il fronte: le battaglie per il diritto allo studio devono andare di pari passo con quelle dello sblocco reale degli scatti stipendiali, con quello del superamento del precariato in università, con la necessità di un reclutamento dei docenti e dei tecnici amministrativi.
L’impianto normativo che ha colpito duramente il sistema universitario italiano era scientifico e programmato. La volontà esplicita è stata quella di disgregare la comunità accademica.
La risposta a quei principi non può che essere l’unità.
Per questo chiediamo che vengano riviste le modalità di questa protesta dei docenti.
Le lotte giuste vanno fatte insieme: gli studenti non possono doppiamente vittime della protesta e di questo sistema universitario.
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