Università italiana nell’Europa di domani. Questo il titolo del convegno che si è tenuto lo scorso 10 novembre e che avrebbe dovuto rappresentare gli Stati Generali dell’Università. L’evento si è svolto presso l’Università Pontificia San Tommaso “Angelicum”, a porte chiuse e alla presenza dei soli invitati. Riportiamo di seguito il discorso della presidente del Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari, Anna Azzalin, chiamata ad intervenire a nome dell’organo di rappresentanza nazionale degli universitari.

Autorità, studenti e studentesse,  signore e signori,

Ringrazio sin d’ora la Senatrice Valeria Fedeli, Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per l’invito. Con estremo piacere e onore oggi sono qui in rappresentanza del Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari.

Il CNSU, nell’essere l’organo di massima rappresentanza per tutti gli studenti universitari d’Italia, si trova a svolgere un ruolo inevitabilmente cruciale e fondamentale nei processi che riguardano il sistema universitario nell’interesse, ovviamente, dei suoi principali protagonisti: gli studenti. Quest’organo, negli anni, ha acquisito via via maggior consapevolezza e centralità nel dibattito politico facendosi spazio, richiedendo ascolto e avanzando proposte concrete. Non sempre però risulta semplice, naturale e immediato concretizzare un ascolto reciproco con i soggetti coinvolti, primo fra tutti il Ministero dell’Istruzione; molto spesso le nostre istanze non trovano seguito e rimangono sospese o, peggio ancora, inascoltate.

Per il contesto in cui ci troviamo, di repentine evoluzioni e veloci cambiamenti anche politici, che talvolta rompono anche gli equilibri governativi, voglio credere che ripartire dal confronto con i soggetti attori dell’università – tanto attraverso le rappresentanze politiche quanto verso quelle istituzionali – costantemente presenti e realmente rappresentative delle categorie che rispettivamente vanno rappresentando, sia (o possa essere) una visione condivisa. Penso sia un’osservazione indiscussa se dico che la politica, nel nostro Paese, negli anni è cambiata di molto ed è tutto fuorché solida e stabile. Sono osservazioni che non condivido volentieri, ma sono dati di fatto che penso vadano presi in considerazione quando ragioniamo in questi termini.

E lo dico perchè, anche per queste ragioni, non è sempre semplice lavorare per l’organo che rappresento. Quando si è giovani è forse più semplice sognare e immaginare contesti migliori, io personalmente sogno ogni giorno ed è anche per questo che sono convinta che il Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari sia in grado e possa contribuire a migliorare l’università italiana.

Da tempo, ormai, chiediamo che la natura ed il funzionamento di quest’organo vengano rivisti ed aggiornati. A vent’anni dalla sua istituzione, l’esigenza di una riforma – che anche il CUN sta richiedendo – è sempre più palpabile: la necessità più forte è sicuramente quella di dare al Consiglio una maggiore forza istituzionale e una maggiore possibilità di incidere nei processi decisionali, coinvolgendolo non solo a valle.

“L’Università italiana nell’Europa di domani” vorrei partire proprio dal titolo che avete scelto per questa giornata e dalle parole della stessa Ministra, che – giustamente – ha citato il buon funzionamento dei sistemi universitari europei, il capitale umano, le risorse e, dunque, la principale best practice dei grandi paesi europei, ossia l’entità degli investimenti. Parto da qui perchè penso fortemente che se vogliamo parlare di sistema universitario nel nostro Paese e se il nostro intento parrebbe quello di condividere una visione d’insieme, lungimirante, sia prioritario partire proprio dal Diritto allo Studio.

In un contesto di sottofinanziamento generale a pesare sono state anche alcune scelte politiche che il Consiglio ha subito ritenuto sbagliate, perché indirizzate a disperdere i già esigui investimenti fatti nella formazione universitaria. Tre esempi semplici sono le “superborse”, le “Cattedre Natta” e i “superdipartimenti”: ne abbiamo richiesto l’abolizione per ricollocare quelle risorse su fondi ordinari di finanziamento.

Siamo in attesa comunque di vedere i cambiamenti, presumibilmente positivi che sono derivati dalla legge di bilancio del 2017, anche se la risoluzione dei problemi alla radice parrebbe ancora lontana.

È pur vero che la situazione di partenza non era di certo delle migliori: basti pensare che il 90% degli studenti pagava le tasse universitarie, le terze più alte d’Europa, e solo poco più di 9 studenti su 100 ricevevano una borsa di studio – e quest’ultimo dato, tocca purtroppo precisarlo, risulta più elevato perché fa riferimento all’anno accademico 15-16, in cui moltissimi studenti non sono risultati idonei a causa della variazione dell’ISEE. Una combinazione letale che nega il diritto allo studio ed è complice di uno svuotamento delle nostre università che colpisce le famiglie più povere.

Siamo il Paese che meno investe in istruzione e questo si ripercuote soprattutto sugli studenti con meno possibilità di passare dalla scuola all’università e poi di essere in grado di proseguire il percorso di studio fino al titolo.  Anche dal DDL di quest’anno, in continuità con il precedente, ci sono degli apprezzabili interventi in settori cruciali, ma ancora ben lontani se relazionati ai problemi strutturali dell’università.

Parlando di Europa, il nostro Paese è uno degli ultimi in Europa relativamente al numero di iscritti e la scarsa disponibilità di risorse destinate al diritto allo studio è certamente una delle cause principali. A ciò si aggiunge una contribuzione che è tra le più gravose nel panorama europeo: nell’anno 2015-16 la contribuzione media nelle università statali è arrivata a 1.248 euro annui, registrando un aumento di ben 86 euro rispetto all’anno accademico precedente e di ben 474 euro in 10 anni (+ 60%), rispetto ad una media di 300 euro in Francia e la gratuità raggiunta in quasi tutti i Lander della Germania. Sul territorio nazionale la contribuzione studentesca, inoltre, è aumentata in modo estremamente disuguale: in 10 anni al Nord le tasse sono aumentate del 43%, al Centro del 56% e al Sud del 90%, quasi raddoppiando nei fatti. Serve aumentare l’FFO in maniera cospicua, in modo tale da poter ridurre sensibilmente la contribuzione studentesca e poter estendere la no-tax area di recente istituita, per garantire l’accesso all’Università ad una platea ben più ampia.

Questo appare fondamentale anche nell’ottica dell’implementazione delle strutture didattiche a servizio della compagine studentesca, indispensabili per evitare l’abuso dell’istituzione dei corsi ad accesso programmato locali, dannosi in un contesto in cui il dato sulle immatricolazioni è sensibilmente inferiore rispetto al passato.

Secondo i dati OCSE la popolazione adulta oggi è mediamente più istruita rispetto agli inizi del 2000. Tuttavia in Italia, la quota dei laureati sulla popolazione adulta resta ancora troppo bassa rispetto agli altri Paesi dell’UE. Non possiamo però parlare del numero di laureati, senza tenere conto anche del numero degli iscritti poiché questo è il vero dato sociale da considerare: un diritto allo studio carente comporterà sempre meno iscritti, con l’esclusione di fasce della popolazione dal sistema, senza averne la possibilità di reincluderle.

Per quanto riguarda le immatricolazioni, anche se il 2016 registra una positiva inversione di tendenza degli immatricolati, l’incremento non fa tornare ai livelli 2006 e a registrare il calo maggiore sono state le regioni del Mezzogiorno. È evidente, allora, come permangano diverse criticità strutturali nell’attuale sistema universitario: in primis il sottofinanziamento dell’intero sistema e forti differenze territoriali tra atenei e tra regioni.

Rispetto alla disomogeneità territoriale mi preme, inoltre, rilevare che il sistema di valutazione assieme al meccanismo di riparto dei fondi statali ha sicuramente svolto un ruolo determinante in questo, portando ad avere atenei con maggiori disponibilità economiche e atenei sempre più in difficoltà. Allora se si vuole correggere la rotta, penso sia doveroso prendere atto di queste differenze di partenza e attuare politiche di riparto di fondi di ricerca, finanziamento ordinario, diritto allo studio in grado di ridurre l’attuale forbice, e che in tal senso non siano solamente premiali o punitive.

Un problema tutto italiano è che, spesso, i giovani laureati non trovano la giusta valorizzazione all’interno del mondo del lavoro: lo vediamo già dai percorsi di introduzione e, in generale, dalla precarietà ancora troppo diffusa. Non penso sia un caso se, nel 2015, oltre 22 mila laureati hanno lasciato l’Italia.

Tra i percorsi di introduzione nel mondo del lavoro ne sono esempi – per citarne alcuni affrontati all’interno del CNSU – le scuole di specializzazione, i percorsi di dottorato, il praticantato forense o l’accesso all’insegnamento,. Rispetto a quest’ultimo punto nell’attuale FIT c’è stato oggettivamente un miglioramento rispetto alla situazione precedente, ma le questioni irrisolte non mancano: moltissimi atenei sono ancora indietro sull’applicazione dei percorsi e sarà fondamentale un attento monitoraggio dell’effettività delle disposizioni in materia di diritto allo studio.

L’annoso tema appena citato inevitabilmente si collega con quello dell’ingresso all’università: condivido quanto detto dalla Ministra per quel che concerne la tematica non facile dell’orientamento universitario, che penso vada in buona parte ripensato anche e soprattutto di concerto con la Scuola e anticipato, per non relegare questo percorso all’ultimo anno delle superiori, che tutti sappiamo essere un anno estremamente sensibile. Serve ragionare d’anticipo, avviare una seria programmazione e garantirla su tutto il territorio nazionale: possiamo farlo, insieme, anche a partire dai 5 milioni stanziati e penso sia utile e necessario coinvolgere anche il CNSU.
Il tema dell’accesso all’università non può essere unicamente ridotto, però, ad un problema di assenza di risorse per garantire un reale diritto allo studio e di mancanza di un sistema di orientamento che sia davvero efficace e funzionale. C’è indubbiamente un fattore di natura normativa che incide pesantemente, considerando che la Legge 264/1999 prevede la programmazione dell’accesso tanto a livello nazionale quanto a livello locale, e che anche l’impianto dell’AVA ha forti ripercussioni sugli accessi programmati. Parliamo di una normativa ormai risalente a 20 anni fa, che necessiterebbe certamente di essere rivista sotto molti aspetti. Esistono, solo per fare un esempio, facoltà a numero chiuso nazionale, dove ogni anno i posti messi a bando risultano essere superiori rispetto alle reali richieste di immatricolazione, di fatto facendo venire meno la necessità stessa di una programmazione.

D’altra parte non possiamo far finta di non vedere come tale modello di accesso ci ponga in una condizione di ritardo verso il resto d’Europa come confermato da molti dati: sono sempre meno gli studenti stranieri che scelgono l’Italia per iniziare il proprio percorso di studi in determinati ambiti in cui la selezione risulta eccessivamente stringente rispetto al resto dei sistemi europei; sono invece sempre di più gli studenti o aspiranti tali che, avendo le possibilità economiche scelgono di iniziare il proprio percorso di studi all’estero. Una prassi grave ed inaccettabile, perché determina una drammatica distinzione tra chi ha la possibilità e chi no di intraprendere un percorso all’estero. C’è bisogno di intervenire sulla normativa italiana, per far sì che si avvicini a quanto previsto nel resto d’Europa andando a colmare quello che è e resta un colpevole ritardo.
Inoltre, sempre in riferimento alla Legge 264/1999 in particolare all’art. 2, che affronta la programmazione locale, mi sento di dire che forse si è perso di vista il senso originale, la ratio della norma: inizialmente era stata pensata come strumento eccezionale per intervenire a livello locale sulla programmazione, in presenza di determinate e assai specifiche condizioni relative a laboratori e tirocini; oggi rappresenta una situazione ampiamente diffusa, visto il proliferare di corsi a numero programmato locale. Analizzare come e in che misura questa misura abbia contribuito ad accrescere effettivamente la qualità dell’offerta didattica si presterebbe ad un lungo dibattito, ma quel che è certo è che ha inciso fortemente sul dato degli immatricolati e degli iscritti agli atenei italiani.

Non può esserci, però, discussione sull’accesso all’università che non tenga conto del sistema di valutazione e accreditamento dei corsi. Non tanto perché il D.M. 987/2016 è stato interpretato in maniera erronea da molti atenei, e utilizzato come volano e giustificazione normativa all’introduzione di numeri programmati locali, come avvenuto nel caso della Statale di Milano. La norma in questione è quella che impedisce l’accreditamento di nuovi corsi in caso di mancato rispetto del requisito sul rapporto docenti/studenti: si tratta senza dubbio di uno degli aspetti più incisivi, o meglio, penso di non esagerare se dico penalizzanti.

Con la “cura dimagrante” che richiamava la Ministra che ha interessato il sistema di finanziamento dell’università italiana, la valutazione ha assunto un carattere eccessivamente punitivo e non più perequativo, portando gli atenei a concorrere gli uni contro gli altri per le stesse scarse risorse, senza che si valutassero indicatori capaci di tener conto del contesto in cui opera il singolo ateneo. Per questo l’impianto della valutazione va ripensato, affinché non sia più uno strumento che alla lunga porti alla contrazione del sistema universitario, ma che miri ad ottenere un’università pubblica diffusa e di qualità su tutto il territorio nazionale.

Ci tengo a ricordare, poi, come il CNSU da subito si era espresso chiedendo di modificare  il decreto, non solo perchè ritenevamo necessario aprire una discussione più ampia, che ci vedesse realmente coinvolti su un tema cruciale come la valutazione, ma anche e soprattutto perchè credevamo che non si potesse affrontare una riforma come l’introduzione nel nostro ordinamento delle c.d. Lauree Professionalizzanti, inserendo un singolo articolo all’interno di un decreto che sostanzialmente parlava di altro, ma bensì necessitasse di tutt’altro percorso. Necessità che la stessa Ministra ha riconosciuto, ritardando di un anno l’entrata in vigore di questi nuovi percorsi di studio.

Il Consiglio che ho l’onore di presiedere non ha mai contestato le Lauree Professionalizzanti in quanto tali, piuttosto ha cercato di sollevare criticità nel tentativo di dare risposte esaustive alla domande che anche noi vediamo e sentiamo provenire tanto dal mondo del lavoro, quanto dalle nuove generazioni. Riteniamo imprescindibile un’analisi di quello che è il quadro europeo, ben consci però, che trasportare modelli esteri nel nostro sistema non può essere la soluzione, considerate le differenze di contesto. È necessario sciogliere alcuni nodi cruciali che anche il CNSU ha sollevato negli scorsi mesi e attualmente irrisolti nel documento di indirizzo formulato dalla Cabina di Regia.

Concludo, non voglio rubare altro tempo a questa discussione che può e deve essere stimolante per tutti noi. Sono d’accordo con la Ministra quando dice che devono essere ripensate nuove politiche e strategie e sia necessario insistere sui finanziamenti. Credo che l’iniziativa di oggi possa essere utile nel momento in cui saremo in grado di trasformarla in un momento di ascolto e confronto tra tutte le componenti del mondo accademico da tradursi in provvedimenti lungimiranti e per tutti.  Certamente il tempo che ci separa dalla fine della legislatura è poco, ma non insufficiente per esaurire tutto oggi. Non c’è evidentemente spazio e tempo per una riforma del sistema universitario, tuttavia ritengo che ci sia ancora la possibilità di intervenire su alcuni aspetti decisivi.

C’è un’intera legge di stabilità su cui intervenire per dimostrare come l’Università rappresenti una priorità di investimento per il nostro Paese. C’è ancora tempo per rivedere il decreto ministeriale su AVA 2.0. C’è ancora tempo per intervenire, seppur parzialmente, sulla normativa relativa all’accesso all’università. C’è ancora tempo per avviare dei tavoli di confronto che, sebbene non porterebbero ad una conclusione entro questa legislatura, segnerebbero un percorso dal quale difficilmente chi presiederà questo Ministero nella prossima legislatura potrebbe prendere le distanze. Sicuramente si sarebbe potuto fare di più in questa legislatura, ma ora cerchiamo di non perdere questa ennesima occasione.”

 

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