L’otto tutto l’anno. In Italia la cultura degli stereotipi di genere, l’assenza di tutele e di pari opportunità, contribuiscono in maniera determinante a far crescere la forbice delle diseguaglianze sociali. All’indomani delle elezioni politiche possiamo registrare un dato sconfortante: la discussione di merito sull’abbattimento delle diseguaglianze di genere è stata marginale e insignificante. Purtroppo però, al contrario, la violenza sulle donne è un fenomeno all’ordine del giorno nel nostro Paese, che viene prontamente affrontato dai media per alimentare gli stereotipi di genere, e dalla politica, troppo spesso, come veicolo per arrivare ad affrontare altri temi (basti pensare allo sciacallaggio messo in campo ogni qual volta una donna viene uccisa o le viene fatta violenza da un uomo straniero), quasi mai per affrontare il problema nel merito o per indagarne le cause profonde e ricercare risposte di sistema. Sono molteplici le cause che rendono le donne diseguali nelle opportunità rispetto agli uomini, nel nostro Paese: la troppo spesso mancata applicazione della Legge 194, le condizioni dei centri antiviolenza e dei consultori, le difficoltà maggiori nell’accesso al mondo del lavoro e la precarietà lavorativa, oltre all’assenza di tutele legate alla genitorialità, gli stereotipi di genere e il gender pay gap, recentemente descritto come “il più grande furto della storia”. Nella giornata internazionale della Donna, affinchè questa non resti una sterile celebrazione, vogliamo incentrare su queste questioni la nostra riflessione, perché è importante lottare ogni giorno per la piena e garantita uguaglianza sostanziale delle opportunità.
La Legge 194 sancisce, dal 1978, il diritto delle donne a ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza, all’articolo 4, e, all’articolo 9, il diritto per i medici di ricorrere all’obiezione di coscienza e quindi di non prendere parte alle procedure di interruzione di gravidanza. La stessa legge però prevede l’obbligo per le strutture di garantire il servizio al fine di garantire il diritto all’ autodeterminazione della donna, e alla tutela e alla salute di questa, ribadendo che nel caso in cui la donna sia in pericolo di vita non si possa far ricorso all’obiezione di coscienza. Nonostante siano trascorsi 40 anni dall’istituzione della 194, oggi solamente il 60% delle strutture sanitarie dotate di un reparto di Ostetricia e Ginecologia effettua interruzioni volontarie di gravidanza. La carenza di consultori familiari rende la situazione ancora più critica.
La discussione intorno all’applicazione della legge 194 è purtroppo ancora un tema estremamente attuale: la percentuale di medici obiettori raggiunge picchi elevatissimi, in Molise è uno solo , tra i ginecologi, a praticare l’interruzione volontaria di gravidanza. Bisogna allora agire sulla coscienza e sulla cultura di chi sceglie di intraprendere questa professione: è necessario che si comprenda che la tutela dei diritti e delle libertà personali, la salvaguardia della salute e la garanzia dell’autodeterminazione sono fattori imprescindibili.
Le diseguaglianze dovute all’impossibilità di una completa autodeterminazione vedono concretezza in vari altri elementi sociali: dalla maggior difficoltà delle donne ad accedere al mondo del lavoro e, ancor più, agli incarichi dirigenziali, all’assenza di diritti e di un sistema di welfare che garantisca libertà, stabilità e autodeterminazione.
Il rapporto AlmaLaurea pubblicato recentemente, sottolinea come dopo il diploma il 77% delle donne si iscriva all’università, a fronte del 63% degli uomini, aumento registrato anche al termine del percorso universitario: le laureate sono il 59%. L’ingresso nel mondo del lavoro ribalta questi rapporti: a cinque anni dalla laurea magistrale l’89% degli uomini (il cui rapporto di lavoro è a tempo indeterminato nel 61% dei casi) ha un’occupazione a fronte dell’81% delle donne, che hanno un contratto a tempo indeterminato solo nel 52% dei casi. Per quanto riguarda poi la questione della genitorialità, lo scenario è ancor più disastroso: nella medesima popolazione dei laureati a 5 anni dal conseguimento del titolo, in caso di genitore maschio l’occupazione è al 90%, per le madri appena il 61%.
Non è sostenibile uno scenario lavorativo in cui una neo-madre su 4 perde il proprio posto di lavoro, in cui esiste ancora la vergognosa pratica delle “dimissioni in bianco”, in cui lo stipendio medio lordo di una donna è sensibilmente inferiore a quello di un uomo.
L’ONU, nell’ultimo rapporto sul gender pay gap a livello internazionale, illustra come in tutto il mondo una donna guadagni in media il 23% in meno di un uomo: è come se un quarto della retribuzione non venisse corrisposta per motivi di genere. Nel rapporto viene spiegato come “il più grande furto della storia” avvenga indiscriminatamente in tutti gli Stati e in tutti i settori produttivi. Questa differenza retributiva è, in realtà, l’ovvia conseguenza di una sovrapposizione di fattori consolidati all’interno della società e del mercato del lavoro: c’è una forte disuguaglianza di genere sul livello delle qualifiche assunte, sul livello di partecipazione all’interno del mercato del lavoro e ci sono elementi di discriminazione che acquisiscono solidità in una sottovalutazione del lavoro femminile.
Porsi questi interrogativi al fine di mettere fine alle diseguaglianze di genere diventa una necessità ancor più dirimente, in un mercato del lavoro sempre più basato sulla flessibilità estrema, sempre più popolato da lavori e lavoratori poveri e precari. Un contratto precario, che già di per sé rischia di essere motivo di licenziamento o mancato rinnovo, che spazio dà alla genitorialità? Ad esempio, la quasi totalità della cosiddetta “app economy”, diventa il principale strumento per acuire la precarietà del mondo del lavoro: se si può licenziare semplicemente cliccando un pulsante su un’app, non è nemmeno più necessario far firmare preventivamente le dimissioni in bianco.
Risulta fondamentale costruire un sistema di welfare che finalmente permetta ad una donna di far convivere vita familiare con vita lavorativa, senza dimenticare la necessità di rafforzare il funzionamento dei centri anti-violenza e delle strutture di ascolto.
Per scardinare questi squilibri e superare gli stereotipi di genere, scuola e università devono svolgere un ruolo di sensibilizzazione, partendo dal dare centralità all’educazione sessuale e all’affettività, per agire nel profondo delle coscienze e mettere in campo una vera e propria rivoluzione culturale nei confronti delle nuove generazioni. È necessario porre lo sguardo oltre il risultato immediato (in questo caso la riduzione delle malattie sessualmente trasmissibili) per puntare alla costruzione di una cultura in cui vi sia consapevolezza riguardo i diritti di genere e rispetto dell’identità di genere, in cui si sappiano affrontare i temi della sessualità, dell’affettività, dell’identità di genere oltre l’attuale struttura binaria. Contemporaneamente è necessario costruire un sistema di welfare che finalmente permetta ad una donna di far convivere vita familiare con vita lavorativa, senza dimenticare la necessità di rafforzare il funzionamento dei centri anti-violenza e delle strutture di ascolto.
Per questo L’otto tutto l’anno!
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