“Il 9 maggio si dovrebbe celebrare la Festa dell’Europa. Noi ci chiediamo, oggi, cosa ci sia rimasto da festeggiare. Dopo anni di crisi, i cittadini sono stanchi e ormai privi di fiducia nei confronti di istituzioni percepite come distanti, mentre problemi e fenomeni di portata continentale e globale continuano ad incidere sul nostro presente e sul nostro futuro.”
Questo è l’incipit dell’appello della Gioventù Federalista Europea in vista della Festa dell’Europa a cui abbiamo aderito. Abbiamo aderito perché crediamo che le debolezze e gli egoismi di questa Europa siano alla base dei problemi che combattiamo ogni giorno.
Nella dichiarazione Schuman era data centralità alla “solidarietà di fatto” come precondizione per fare l’Europa. Oggi la solidarietà è un valore che fatica persino ad essere nominato dai leader politici progressisti, ansiosi di mantenere consenso, incapaci di stabilire una narrativa alternativa a quella dei populismi e dei nazionalismi. Quello che è stato realizzato in questi anni è l’opposto della solidarietà, l’esatto contrario della nostra idea di Europa. L’austerity a cui siamo stati sottoposti in seguito alla crisi non è stata solamente inefficace dal punto di vista economico. Non ha nemmeno avuto come unico effetto quello di portare all’estremo le disuguaglianze.
Ha tolto la speranza di un futuro migliore, ha prodotto rassegnazione e infine odio.
La crisi e l’austerità hanno anche cambiato le priorità della politica e dei cittadini. Per entrambe l’investimento in istruzione è passato in secondo piano. Ma se le scelte della politica sono la causa, quelle dei cittadini ne sono l’effetto. L’Italia ha scelto di tagliare sul futuro, mettendo a disposizione dell’Università sempre meno risorse e docenti, precarizzando la ricerca e soprattutto limitando sempre più l’accessibilità con numeri chiusi, tasse sempre più alte e un sistema di diritto allo studio largamente insufficiente. L’istruzione dovrebbe invece avere un ruolo centrale nel disegnare società pacifiche e coese, formare cittadini attivi e consapevoli in grado di decifrare con pensiero critico le informazioni, creare classi dirigenti che rispecchino le diversità della società. Tutto ciò è fondamentale per rimettere al centro i principi democratici alla base di una cittadinanza europea.
Per troppo tempo l’europeismo è stato incarnato dai difensori dello status quo, da chi ha fatto prevalere la morale sulla Politica cercando di convincerci che la nostra generazione merita di pagare il conto per le colpe dei nostri padri. Una sorta di estremismo europeista che non ha fatto altro che consegnare il dibattito pubblico e le speranze dei più deboli in pasto alle derive nazionaliste.
Chi ha a cuore il destino dell’integrazione europea ha invece il compito di rilanciare una dimensione sociale, un modello che si distingua nel mondo per la sua capacità di rispondere ai bisogni di tutti i suoi cittadini nella società globale del XXI secolo.
Un primo passo è stato fatto con il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali, ma non basta. Se non cambia l’assetto istituzionale dell’Unione, ogni avanzamento nei principi risulterà insufficiente nell’implementazione pratica. Abbiamo apprezzato il fatto che al primo punto del Pilastro sia contenuto il diritto a un’istruzione inclusiva e di qualità. Riteniamo però fondamentale sia data sostanza a tale affermazione. Il 14 novembre 2017, la Commissione ha inviato al Parlamento, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni una comunicazione intitolata “Strengthening European Identity through Education and Culture” come contributo alla discussione che si sarebbe poi tenuta il 17 novembre al Social Summit di Gothenburg. In questo documento la Commissione presenta l’orizzonte di una European Education Area da realizzare entro il 2025 su alcuni capisaldi. Il primo è quello di estendere la mobilità e nello specifico: la proposta di raddoppiare i fondi e i partecipanti al programma Erasmus+ e l’introduzione di una Carta Europea dello Studente per facilitare le procedure burocratiche, lo scambio di dati e l’accesso ad alcuni servizi.
Il secondo è il mutuo riconoscimento dei titoli di studio. Si tratta di uno dei principali obiettivi del Processo di Bologna che ha preso le mosse nel 1999 e ha dato vita alla European Higher Education Area, in cui sono coinvolti 48 paesi. Il 24 e 25 maggio a Parigi si svolgerà la Conferenza Ministeriale, l’incontro periodico dei Ministri dell’istruzione che dovrà fare un punto su quanto ottenuto e rilanciare sui nuovi obiettivi per il prossimo biennio. Sarebbe assurdo se, nonostante le evidenti carenze nell’implementazione di quanto concordato dai ministri in passato, il paesi dell’UE decidessero di iniziare a creare una sorta di sistema a due velocità: un nucleo costituito dai Paesi Membri (EEA) e un area più ampia e marginale (EHEA). A questa visione elitista si ricollega un altro obiettivo della Commissione, ossia la creazione di venti “European Universities” entro il 2025. Un progetto che quasi sicuramente escluderà le università dei paesi extra UE, poco trasparente nei contenuti e nei processi decisionali che finora hanno scarsamente coinvolto le parti interessate e che allo stato attuale non ha sollevato alcun dibattito nella nostra comunità accademica.
Invece di rilanciare continuamente su slogan suggestivi, si dovrebbero rafforzare gli impegni e creare dei meccanismi volti ad assicurare che questi vengano rispettati nell’intera EHEA, a partire dai valori fondamentali: la libertà accademica, la responsabilità pubblica nei confronti dell’istruzione, l’autonomia universitaria e la partecipazione degli studenti e del personale alla governance del sistema universitario.
In questi anni abbiamo assistito a palesi violazioni di questi valori, non solo dai paesi più a rischio rispetto alla tenuta democratica e allo stato di diritto, ma anche in casa nostra e nei paesi democraticamente maturi: ogni giorno vediamo mettere a rischio l’accesso all’università e la partecipazione democratica degli studenti. Pensiamo al permanere del numero chiuso in Italia, all’introduzione della selezione in Francia, alla reintroduzione delle tasse universitarie in Austria, alla proposta di eliminare il potere decisionale dei consigli di corso in Danimarca. Questi sono solo alcuni dei provvedimenti a cui le organizzazioni studentesche si stanno opponendo con forza nei rispettivi paesi, condividendo nel segno della solidarietà le reciproche battaglie. La dimensione della lotta per un’istruzione universale, gratuita e di qualità, oggi, non è più solo nazionale: gli attacchi all’istruzione sono ormai simili in molti Paesi europei, così come le grandi decisioni sono prese nelle riunioni dei ministri dell’Istruzione di tutta Europa. Se il luogo decisionale ormai è anche europeo, così dev’essere anche il movimento studentesco: per questo l’Unione degli Universitari collabora attivamente con i sindacati studenteschi progressisti europei all’interno del network dei Topics, con i quali condividiamo la concezione dello studente come soggetto attivo nelle società nelle quali studia e agisce, e all’interno della European Students’ Union, l’organizzazione rappresentativa degli studenti a livello europeo. Grazie anche alla nostra azione durante l’ultima Assemblea Generale dell’organizzazione, l’ESU si è espressa contro il sistema universitario europeo proposto dalla Commissione Europea, in quanto dividerebbe le università in quelle “europee” di serie A e quelle “nazionali” di serie B, e a favore della creazione di uno status di studente europeo, con diritti comuni validi ed esercitabili in tutta Europa.
Domani ci sarà quindi poco da festeggiare. Il 9 maggio dovrà essere una giornata da cui ripartire con ambizione e con entusiasmo ma con la consapevolezza che un cambiamento radicale nelle politiche e nell’architettura dell’Unione non è più rinviabile.
Per questo parteciperemo alla Contro-Festa dell’Europa, davanti a Montecitorio, assieme a tantissime altre associazioni che credono nel progetto europeo e che vogliono impegnarsi per realizzarlo sulla base dei valori fondamentali che lo hanno ispirato.
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